In molte occasioni il dibattito pubblico richiama la “comunità” come modello da perseguire. Sorprendentemente, non avviene solo negli incontri sociali – più che comprensibile – ma anche nelle occasioni in cui i temi riguardano l’economia. Prendiamo ad esempio la dimensione turistica imboccata dalle “colline Patrimonio Unesco”, con energica attenzione all’ambiente.
Questo per dire che oggi la comunione di forze “indipendenti” è una modalità che genera valore e alleanze, e impedisce, o meglio, smorza tensioni e contrasti. È l’idea di comunità nella quale ognuno ha i propri obiettivi, i propri fini e scopi.
Dentro una comunità ogni componente è libero e indipendente; se ha forza generativa e creativa potrà svilupparsi e crescere. La differenza sostanziale è che non lo farà mai a scapito di altri o, nel peggiore dei casi, sfruttando gli altri. Non c’è un buonismo dentro una comunità, c’è piuttosto un buonsenso col quale nei luoghi – fisici o virtuali – si genera qualità di vita a vantaggio dell’insieme. Per questo l’affermazione peculiare “per crescere bene bisogna fare comunità” è fondamentalmente vera.
Questo territorio – mi riferisco alla sinistra Piave – ha originato molti tavoli di “comunità”; ne cito alcuni per esemplificazione: le IPA, i consorzi, i distretti dell’ULSS, i tavoli tematici per il sociale, le unioni di associazioni, le associazioni di categoria che riuniscono grandi medie e piccole imprese, le associazioni sindacali… E così via. Ognuno di questi organismi si intreccia con gli altri per migliorare la convivenza.
Manca qualcosa?
Mi pare che in questo periodo post-pandemia, in piena crisi energetica e difficoltà climatiche, ci sia un nuovo clima da parte di molti: in tutti i campi c’è una maggiore assunzione di responsabilità. È un vento leggero ma la Comunità ha intrapreso il viaggio; l’invito è di esserci, partecipare, dare e avere fiducia. Là fuori il peggio è notizia, il buono è “partecipare”: prendiamo ad esempio la nostra Fondazione di Comunità.
Editoriale della Newsletter #5
di Loris Balliana